“Pirlo,
De Rossi, Marchisio…”
Tutti sanno
che vedere le partite allo stadio è un conto, e dalla televisione è un altro;
soprattutto perché si respira il cosiddetto “clima partita”, osservi i
giocatori che si concentrano, il tifo che si prepara, le telecamere di sky che
si posizionano, tutto questo quando mancano pochi minuti all’inizio
dell’incontro. Il “behind the scenes” prima dello show.
“…Verratti,
Candreva, Motta.”
Una
delle cose che mi sono rimaste più impresse nella mia, seppur breve, carriera
da ultrà a vedere il Milan, non rientra nella partita “giocata”. Si certo ho
visto grandi campioni come Sheva, Ibra, Kakà, Pippo ecc regalare spettacolo sul
rettangolare di gioco, ma parafrasando Mark Rowlands, ne “Il lupo e il
filosofo” “Ci sono diversi modi ricordare quando pensiamo alla memoria,
tendiamo a tralasciare ciò che è più importante a favore di ciò che è più
evidente” e ogni volta che sono stato allo stadio osservavo che il primo
giocatore ad entrare in campo per il riscaldamento non era il capitano, o ibra,
o sheva, o il portiere, ma Gennaro Ivan Gattuso. Mi chiedevo ingenuamente il
perché. Ora so il motivo.
“…e
completano la lista Aquilani e Parolo.”
No non
sono nomi messi a caso, ma sono gli otto centrocampisti convocati da Prandelli
per i Mondiali di calcio che si disputeranno fra qualche settimana in Brasile.
I primi
mondiali dove non parteciperanno molti epici vincitori di Berlino 2006, tra cui
Ringhio.
Tanto
per essere chiari e fare una semplice equazione: 5 Parolo + 9 Motta = ½
Gattuso. Claro?
(scusate
ma questo sassolino dalla scarpa dovevo togliermelo)
Gattuso
racchiude nella sua semplicità umana e di linguaggio (guardare qualche sua
intervista in inglese ai tempi del Glasgow, ha fatto bestemmiare dalla tomba Shakespeare)
una dialettica calcistica notevole. Mi spiego meglio: la sua presenza in campo
era un sussistere complementare di alto e di basso. Onore e umiltà. Ma
soprattutto orgogliosa dignità calcistica in una veste povera, poverissima.
Nato in Calabria ed entrato nel calcio che conta con il Perugia, si trasferisce in Scozia dove con i Rangers vince anche uno scudetto (che compresi gli otto
anni precedenti facevano poi totale nove vinti consecutivamente
#tipiacevincerefacile).
Approda
nella squadra verso la quale il padre Francesco ha sempre condotto l’educazione
calcistica del figlio: il Milan.
Due
Champions League, due Scudetti e una Supercoppa Italiana quando ha indossato la
maglia rosso nera. Ovviamente da titolare fisso in mezzo al campo. Non male eh
per uno che al primo allenamento nel milan, nella fase di riscaldamento,
facendo torello, lasciava di stucco i compagni per l’incredibile coraggio e
grinta accompagnato in maniera claudicante da una tecnica ai piedi che avrebbe
lasciato desiderare anche il terzo panchinaro destro in pensione di una squadra
in Eccellenza.
Dopo
questo aneddoto aggiungiamo alla lista anche 14esimo posto al Pallone d’Oro del
2006. 14° su 25. A pari merito con un
tale che giocava nei Red Devils con la maglia numero 7: Cristiano Ronaldo. Come
direbbe Fabio Caressa: “Il calcio è strano Beppe”
This is Gennaro
Gattuso: soprannominato dalla Fossa dei Leoni “Ringhio”. Prendere o lasciare.
Sempre preso dai tifosi del Milan. Preso anche dal 90% degli italiani. Chissa
perchè.
Tutti
questi calciatori della Serie A odierna, che passano più tempo dal
parrucchiere, a farsi i capelli, che nel campo d’allenamento a farsi il culo
dovrebbero farsi delle domande. E se hanno un poco di materia grigia, provare
anche a formulare delle risposte. Non voglio arrivare al facile e infantile
nesso macismo-bravura.
Ma semplicemente dire che l’essenza del calcio non sta
nell’estetica e nel merchandising. Perché possono metterti a posto la famiglia
e i nipoti fino alla terza generazione con un contratto da capogiro, e sponsor
pubblicitari, ma l’anima in campo, quella è dura da mettere. Perché è gratis,
anzi ci perdi spesso. E la cosa che mi preoccupa di più è vedere le nuove
generazioni calcistiche crescere con tante nuove Nike Magista ai piedi, ma
pochi valori nel cuore..
La
semplicità. Presentandosi all’intervista del programma “Che tempo che fa” di
Fabio Fazio, il conduttore, vendendo Gattuso vestito e agghindato in maniera a
lui inusuale gli porge i complimenti. La sua risposta: “La cravatta? Io non
indosso mai la cravatta. Nemmeno al mio matrimonio l’ho indossata. E’ mia
moglie che oggi mi ha vestito così”. Priorità.
C’è
un'altra immagine durante la sua carriera al Milan, che mi è rimasta impressa,
e che illumina ulteriormente la sua figura calcistica. Finale di champions
all’Old Trafford, Manchester - 2003. Milan e Juve si affrontano in una sfida
che resterà nella storia, e al 120esimo minuto, quando i giocatori di entrambe
le squadre avevano le ginocchia di piombo, i nervi di fuoco e il cuore
d’acciaio, lo vedi la, Ringhio, durante la melina juventina nella spasimante
attesa del fischio che avrebbe decretato i rigori, correre come un diavolo
assatanato verso la palla.Sapeva che non ci sarebbe mai arrivato. Ma sapeva
anche che andava fatto.
Ringhio
non vuole essere a morale della favoletta “tranquillo anche se non hai i mezzi
per fare qualcosa, l’importante è che ci metti impegno”.
Perché
l’impegno non basta. Perché come il sangue di San Gennaro che il 19 settembre di
ogni anno, miracolosamente, sgorga dalla sua statua a Napoli, così il nostro
Gennaro: in campo, prima dell’impegno, versava sangue.
Perché
l’impegno non fa male. La fatica, le lacrime, il sudore, il fiato che viene a
mancare, il dolore lancinante alla schiena dopo decine di kilometri macinati
sul campo, i contrasti mortali tibia contro tibia che ti fanno mancare il fiato,
il chinare il capo di fronte ad una superiorità tecnica dell’avversario che
devi marcare perché lo dice il mister, ma farlo fino in fondo e fino alla fine,
vendendo cara la pelle. Questo fa male. Questo è la morale di Gattuso, che
prima di renderlo un calciatore lo rendono uomo. Lo hanno reso capitano del Milan.
Ma ora che ha lasciato il calcio giocato, lo ha reso anche sicuramente capitano
della sua vita.
“L’albero
sembra un cane intento a ringhiare verso i cieli” diceva Jack Kerouac...
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