mercoledì 17 luglio 2019

L'EFFETTO RONALDO: "DE LIGT & CASTIGO"



11 luglio 2018 - Pianeta Terra,
Arriva un alieno da Madrid destinazione Torino: Cristiano Ronaldo. Juventini che non ci credono, esultano, festeggiano, fanno post su ogni social, si esaltano e gridano al miracolo (spoiler: escono ai quarti di Champions), tutti su di giri e al settimo cielo per l'arrivo del più forte giocatore al mondo (al pari di Messi, non dimentichiamolo) in Italia, alla "loro" Juve.
Tutto giustissimo? Certo che si!...beati loro!
E qua casca l'asino.
Qua arriva il fantomatico "Effetto Ronaldo" tanto millantato da ogni giornale (Gazzetta), tv (Sky Juve), "giornalista" (molte virgolette) e juventino (medio), che si può pressoché tradurre in questa frase:

"Voi "non-juventini" dove essere GRATI che sia arrivato Cristiano Ronaldo alla Juve perchè questo metterà in risalto la Serie A e attirerà altri grandi campioni a seguirlo nel nostro campionato, vedrete"

17 luglio 2019 - Pianeta Terra.
Andiamo a fare una rapida check-list di cosa è successo o cambiato in quest'anno e vediamo quanto la Serie A e le altre big italiane hanno potuto godere di questo CR7, pure loro:

1) Serie A con Ronaldo è stata la più bella di sempre? No
Serie A 2018-2019 è finita non ad Aprile, ma ad Agosto. Uno dei campionati più brutti, meno avvincenti e meno esteticamente gradevoli degli ultimi 20 anni.

2) Campioni che seguono la scia di Ronaldo nel mercato 2018 andando nelle altre big italiane? No
- Roma: Allison, il miglior portiere al mondo, dopo una settimana dall'acquisto di Ronaldo, se ne va dalla Serie A in Premier;
- Milan: con i fondi quasi illimitati di Elliott spende 100 milioni senza convincere nessun top player ad arrivare;
- Napoli: De Laurentiis afferma la frase che diventerà poi un meme "Napoli, sono io il vostro Cavani", e Ronaldo non attira Cavani al Napoli.
- Inter: acquista De Vrij che per certi versi è un top player, così come Srkiniar e Nainggolan...peccato che giochino tutti e tre già in serie A da anni.

3) Campioni che seguono la scia di Ronaldo nel mercato 2019 andando nelle altre big italiane? No
- Roma: non solo non riesce ad attrarre dei campioni dall'estero, ma addirittura sta vendendo praticamente tutti i suoi giocatori più forti;
- Milan: dopo settimane a tergiversare col contatto più "alto" fra quelli a disposizione, Ceballos (Real Madrid), ciaone anche lui e va in prestito all'Arsenal;
- Napoli: James Rodriguez piuttosto che finire al Napoli, il Real preferisce mandarlo agli arci-rivali dell'Atletico (per dire)
- Inter: L'unico nome "grosso" a cui punta è Lukaku, ma la richiesta è alta, staremo a vedere (cosi come staremo a vedere se lo si può considerare un campione, di certo non si può paragonare ai Pogba, Neymar & Company del mercato).

"Voi "non-juventini" dove essere GRATI che sia arrivato Cristiano Ronaldo alla Juve perchè questo metterà in risalto la Serie A e attirerà altri grandi campioni a seguirlo nel nostro campionato, vedrete"

... col senno di poi è un bilancio piuttosto magro quello che mostra la realtà.
La verità è che l'unico "Campione" arrivato in Italia è De Ligt, ed è arrivato guarda caso alla Juventus e guarda caso dopo che Ronaldo, (che dopo essere calciatore ed essersi improvvisato tuttofare in campo, allenatore, presidente, ora fa pure il Direttore Sportivo per gioia di Nedved) gli intima alla Nations League di venire alla Juve.

No caro juventino che stai leggendo questo articolo, non sto "rosicando", come tu credi (o piacerebbe credere) sto semplicemente facendo notare a tutti, ma sopratutto a te, che l'unica squadra ad aver goduto dell'arrivo di CR7 è la tua, ed è giusto cosi.
Ripeto: ed è giusto cosi.
Ma di certo non mi lascerò di certo plagiare dalla tua ipocrisia e falsa magnanimità provando ad indorare al momento una pillola magica per la tua squadra, e al contempo più che pillola, "supposta" per le altre big del campionato.

L'arrivo di Ronaldo ha portato De Ligt alla Juve, ma "castigo" sopratutto alla Serie A e alla competitività del campionato stesso: un campionato sempre più povero, sempre più brutto da vedere, sempre meno competitivo e sempre meno attraente sotto ogni forma finanziaria, d'intrattenimento e sportiva.

Quindi continua a ballare cara Vecchia Signora, mentre fuori c'è la Catastrofe.
Ma attenta che a una certa la musica potrebbe finire.









Capo Redattore di Sport Globetrotter. 
Ossessivo, pragmatico e compulsivo ma nella Vita mi capita di improvvisare. Preferisco conoscere i pazzi: hanno storie più interessanti.
Simone Carpi

lunedì 17 giugno 2019

SI SARRI CHI PUÒ



"Guardiola è il piano A. Conte il piano B. Sarri il piano C."
Immagino la faccia dello juventino medio stra-esaltato che a luglio 2018 imperversava le storie instagram su CR7, leggere queste parole e iniziare a gonfiarsi il petto sognando Pep Guardiola allenare Ronaldo.
Guardiola che tutto d'un tratto non è più un perdente in Europa ("dite tanto su ad Allegri, ma pure Guardiola è uscito dalla Champions, ha tutti i milioni che vuole poi, e quando era al Barcellona ha avuto culo" - l'ho davvero sentita questa che più che una dichiarazione, è un dichiarazione per il TSO),
ma diventa tutto d'un tratto un "grandissimo allenatore", cosa che confermano tutti i non juventini, però tipo da sempre.
E quando gli chiedi ad uno juventino inGuardiolito: "Ma come fareste ad avere un monte ingaggi che vi permetta sia Ronaldo che Guardiola con tipo 60 mln netti totali solo loro due?", loro fanno spallucce e ridono (ridono di cosa poi).
Ma poi...ta-dà!
"La prossima stagione partiremo da zero col City e vedremo cosa succederà" afferma Pep rompendo i silenzi delle scorse settimane. 
Guardiola saluta la Juventus. Titolo Juve -3% in Borsa. Olè.
Beh dai allora piano B, arriva Conte.
Immagino la faccia del tipico juventino stra-esaltato che ricorda i vecchi tempi di un Conte-demiurgo che prendeva dei "Simone Pepe" e dei "Giaccherini" e li faceva diventare dei giocatori di calcio, leggere queste parole e iniziare a gonfiarsi il petto sognando Conte allenare Bonucci facendolo tornare il difensore che un tempo era (o meglio: crede di essere).
Conte che tutto d'un tratto passa da allenatore sopravvalutato, caciarone, e catenacciaro, a unico e vero condottiero per far vincere la Champions alla Juve di Ronaldo.
Conte all'Inter. Il tecnico: "Entusiasta della nuova avventura". Zhang: "E' uno dei migliori".
Conte saluta la Juventus.
Resta il piano C: Sarri.
Non deve essere stato facile, per un tifoso juventino, comprare il giocatore più forte al Mondo nonchè più forte della Champions, e uscire addirittura un turno prima dello scorso anno; ma deve essere ancora più difficile vedere i suoi sogni di una stagione 2019-2020 andare in frantumi non ad Aprile 2020, ma a Giugno 2019.
Eppure non è un fallimento.
Ora ovviamente tutti gli juventini saranno scettici nei confronti di un allenatore che prima è stato Napoletano (acquisito) e dei Napoletani, e ora passa a loro.
Gli juventini saranno scettici nei confronti di un allenatore che predilige il bel gioco, loro che stanno al "bel gioco" come la Corea del Nord sta alla "democrazia", (fra l'altro con gli stessi successi in ambito Europeo).
Gli juventini del "vincere non è importante, è l'unica cosa che conta" saranno scettici nei confronti di un allenatore che dichiara "È sport, non ha senso. Non si può essere scontenti di un secondo posto".
Eppure Sarri è la migliore scelta attuale possibile per la Juventus.
Un allenatore che non pensa a vincere, ma 
pensa e prova "a vincere, mostrando un bel gioco" che è molto diverso, e che è ancora più diverso di "vincere" soltanto.
Per chiudere una volta per tutte questa diatriba tutto italiana (e italiota) già spiegata qui, in partenza, e senza dover sottolineare che lo stesso Liverpool (Vice campione d'Europa 2018 e Campione 2019), è capitanato da un Mister con gli stessi ideali:
1) il Napoli di Sarri della scorsa stagione era un Napoli con un monte ingaggi quattro volte più piccolo della Juventus e con una rosa molto meno competitiva, ha sfondato quota 90 punti e ha perso lo scudetto contro la Juventus di un nulla (e fra l'altro non per merito della Juventus).
2) Solo un idiota può davvero credere che esista qualcuno che giochi a Calcio, ma sopratutto a Calcio professionistico (dove chi perde, perde soldi, chi vince vince soldi) senza pensare al risultato, sopratutto se quell'idiota ha perso 2 finali in 3 anni.

Torniamo a noi.
Sarri certamente ha dei difetti, certamente non ha la "teoria" di Guardiola, il "talento" di Klopp, o "l'esperienza" di Ancellotti, ma altresì ha diverse obiettive capacità (ha vinto l'Europa League eh), ma ancor più il coraggio di provare a guarire lo juventino medio dall'ossessione per la vittoria, che lo porta, sovente alla malattia e al disturbo ossessivo compulsivo di negare tutto (sentenza di Calciopoli, sporadici e non sporadici favori arbitrali, chiari fallimenti Allegriani) a costo di non sfatare questo mito del "Vincere non è importante è l'unica cosa che conta", che più che un mito è una promessa di Faustiana memoria, una maledizione appunto, un amore disturbato dedito allo stress sportivo, una promessa irraggiungibile: nessuno può vincere per sempre, e se il tuo motto è vincere o niente, allora spesso (statisticamente parlando) ti devi accontentare del niente.
Chissà quante "Champions non vinte" serviranno, per fare capire questo concetto al popolo bianconero, per poterlo liberare e quindi rendere sì davvero pronto a vincere, diventando non causa, ma effetto del suo stesso gioco.
Ma soprattutto chissà quante vittorie serviranno a Sarri in maglia bianconera, per far magicamente cambiare idea ai suoi nuovi tifosi, ora ostili e pronti a gettarsi in mare al grido "Si Sarri chi può!"
Ma ora il tempo è giunto: levate l'ancora, preparate i marinai, è "il Comandante" Maurizio Sarri che ora guida la Nave, alla conquista della Champions... o forse dell'Eldorado.







Capo Redattore di Sport Globetrotter. 
Ossessivo, pragmatico e compulsivo ma nella Vita mi capita di improvvisare. Preferisco conoscere i pazzi: hanno storie più interessanti.
Simone Carpi

martedì 4 giugno 2019

HO VISTO IN CIELO UNA STELLA: LUKA JOVIC

Cosa porta il Real Madrid ad accaparrarsi, giusto un paio d'ore fa un giovane attaccante ventiduenne dell’Eintracht Francoforte? Questo è il destino di Luka Jovic. Le sue ottime prestazioni nella stagione 2018/2019 hanno suscitato l’interesse delle big ma la storia di questo ragazzo serbo è costituita da capitoli diversi e non scontati. 
Esordio nella Stella Rossa, storica società di Belgrado, dove muove i primi passi realizzando il suo primo gol nel 2014 come più precoce goleador del club battendo il record detenuto da Dejan Stankovic. Luka fa due anni nella capitale per poi trasferirsi in Portogallo e più precisamente a Lisbona, nel Benfica. Data l'importanza della maglia e l'intensa competizione di reparto condivisa con gente di spessore come Jonas, Raul Jimenez e Mitroglu Jovic non rientra nei piani di Rui Vitoria e fatica tremendamente a mettersi in mostra. Diventa ben presto l'attaccante di quarta fascia collezionando solamente 4 presenze in totale. La rinascita per il serbo arriva a giugno 2017 dove con un prestito biennale viene comprato dall'Eintracht Francoforte. L’artefice dell’operazione si chiama Freddy Bobic che non è altro che l'attuale DS dell'Eintracht. La sua intuizione abbinata al duro lavoro quotidiano impartita da Niko Kovac , anno scorso coach del club e quest’anno al Bayern, hanno fatto progredire Jovic sia in termini realizzativi che in termini di fiducia in se stesso che nel prendersi un ruolo di primo piano nello schema tecnico tattico. I numeri parlano chiaro: da agosto a oggi è stato in grado di fare 25 gol e 7 assist fra Bundesliga ed Europa League. Da ora in avanti è chiaro che si apre un nuovo capitolo della sua carriera, in un altro campionato e forse in un futuro via via sempre più roseo. Senza dimenticare che sullo sfondo c’è anche il mantenimento e il consolidamento di un posto nella nazionale serba, cui Jovic tiene in modo particolare anche dopo il buon mondiale disputato. La storia di Jovic è un po’ come quella di tanti altri che vivono alti e bassi ma che poi tutt’a un tratto trovano la loro dimensione ed emergono. Di certo lui qualità e fisicità le ha, vedremo se vestire la camiseta dei blancos, lo renderà un vero e proprio galacticos oppure una meteora che dimenticheremo fra qualche anno.






(Blogger di Sport Globetrotter. Appassionato di fotografia, comunicazione digitale e sport, soprattutto calcio internazionale.)


Davide Farri

mercoledì 29 maggio 2019

DEA & FINTI DEI

I complimenti per questa stagione all’Atalanta sono doverosi e non dovrebbe essere diversamente. Certamente non saranno mai come gli elogi visti, sentiti e letti in questi giorni, in perfetta linea con quella regola non scritta italiana che il vincitore si elogia e lo sconfitto si critica sempre e a prescindere. Sono e sarò sempre per un campionato, come in questo caso, in cui la squadra al quattordicesimo posto per monte ingaggi possa arrivare terza, ma alcuni appunti a questa Atalanta vanno fatti per onestà intellettuale.
Partendo dal primo, l’eccezionalità di questa squadra è addirittura, sentendo Capello al Club di Sky l’altra sera, superiore allo storico scudetto dell’Hellas Verona. Sono in disaccordo, prima di tutto perché negli ultimi 10 anni, se chiudo gli occhi, mi giungono alla mente la Samp di Cassano e Pazzini (l’anno dopo fu Serie B) e l’Udinese di Guidolin (più volte e sempre fuori al preliminare). Come già detto, ben vengano storie come queste ma, non esageriamo nell’unicità di quanto accaduto quest’anno.
Gasperini ha fatto un grande lavoro di crescita con il gruppo Atalantino e lascio dire ai competenti se il suo sia il gioco più europeo che ci sia in Italia. Tuttavia, va detto che in questa stagione il cammino europeo della "Dea" si è arrestato contro il non irresistibile Copenaghen al preliminare di Europa League e il vero cambio di passo è arrivato non con il gioco ma con l’esplosione di Zapata. Rimango personalmente convinto che Gasperini sia un allenatore, al pari dei vari Mazzarri, Guidolin, Pioli etc…, perfetti per squadre medio-piccole con ambizioni europee, ma non adatti per squadre di alta classifica dove la posta sia in campionato che in coppa è più alta. La dimostrazione è stata l’esperienza fallimentare con l’Inter. Il banco di prova, che sarà Roma o Atalanta, verrà l’anno prossimo e sarei felice di essere smentito in questo pensiero.





Continuo a vedere nell’Atalanta come in tutte le prime 10 del campionato, salvo felici eccezioni, pochi italiani nell’11-titolare, in questa stagione nelle rotazioni con almeno 20 presenze si annoverano solo Gollini, Mancini e Masiello (non un ragazzino). Null’altro. A voi i commenti. Non credo sia un caso che nell’anno in cui i bergamaschi hanno puntato su giocatori affermati e non sui giovani sia arrivato l’exploit.
Rimane infine da discutere sul punto più critico. Spero tanto la prossima stagione di vedere la Dea poter realmente lottare in champions ma credo sarà davvero dura. Secondo la grande ipocrisia del Ranking Uefa, vige il postulato che in Europa si tifano le italiane, a parte la bestialità concettuale della cosa, secondo questo stesso ragionamento, in virtù del ranking nella corsa 4° posto avremmo dovuto tifare più Milan e Roma. Il motivo è semplice se per l’Atalanta già la sola partecipazione alla Champions, vada come vada, è un successo, per Milan e Roma no, in quanto punterebbero a un percorso europeo il più lungo possibile. Inoltre, forse sbaglio, ma sarà dura che di fronte a congrue offerte i bergamaschi non lascino partire gioielli. Insomma in chiave ranking, una Atalanta oggi o un Udinese ieri, che rimangono fuori dal girone o al più vi prendevano parte senza ambizioni, è un grosso passo indietro e vorrebbe dire, di fatto, di avere 3 sole squadre che puntano a un cammino il più lungo possibile in Champions. Fa sorridere che chi oggi ne tesse le lodi, siano gli stessi che pretendono che un milanista tifi Inter in Europa e viceversa, contro quella tradizione e rivalità che danno quel qualcosa in più al nostro povero campionato.  
Ci auguriamo una riorganizzazione della Serie A, in senso economico, che permetta sullo stile inglese, di competere realmente in coppa evitando smembramenti estivi delle rose in nome delle plus-valenze.
In bocca al lupo all’Atalanta per la prossima stagione ma, se OGGI la elogiamo, allora basta Ranking e ipocrisie DOMANI.













(Pubblicista su Sport Globetrotter. Cinefilo. Amo il calcio, il basket e lo sport di movimento. Appartengo alla maggioranza silenziosa e al partito del buonsenso)

Manuel Fantoni

sabato 18 maggio 2019

CAPITERAN FUTURO?




Daniele De Rossi non sarà più un calciatore della Roma. Avete tutti letto i giornali, i social e pure sentito l'audio di whatsapp di Daniele che gira su Youtube.
La tecnologia ha stravolto la nostra vita, e questa notizia ha stravolto chi ama il Calcio in maniera totalmente improvvisa e trasversale.
Milanisti, Juventini, Interisti, Napoletani, Albinoleffesi (per dire), e Romanisti sono rimasti arrabbiati, amareggiati, delusi e forse ora disillusi.
Sarebbe facile e banale scrivere una articolo per dire che "le Bandiere nel Calcio non esistono più", "il Calcio è cambiato e sono cambiati i calciatori", "Eh ma Maldini, Zanetti..." eccetera eccetera.
Sarebbe facile e banale, ma anche giusto. Ma non lo farò.
Parliamo piuttosto del 1° e forse unico caso nella storia di Calcio di "Leader nel Leader", ovverosia di bandiera (lettera minuscola) della squadra, cioè Daniele De Rossi, che a sua volta è ed è stato sotto la Bandiera (lettera maiuscola) della squadra: Francesco Totti.
Nel calcio europeo i soprannomi (ahinoi) non sono d'uso comune, a differenza di quello sudamericano, e quando si danno, la fantasia ecco non è che sia la cosa che abbondi maggiormente...spesso. 
In Italia si può sentire dire "CR7 con una bordata d'esterno!" quando in Sudamerica il titanico Victor Hugo Morales urlava "El Diez Maradona! De qué planeta viniste, barrilete cosmico!" 

"L'aquilone cosmico". Ciao.


Se vi volete davvero bene, mettete l'audio al massimo volume.

Ma torniamo in Europa, al centro del nostro Mondo, nella nostra Caput Mundi.
A volte dicevo, anche noi europei però coi soprannomi non siamo cosi male.
Esiste forse un soprannome più struggente, poetico e vero di "Capitan Futuro"?
Un moto a luogo nel soprannome che è al tempo stesso una promessa e una condanna, una fotografia instantanea e al contempo perenne, di un giocatore, calciatore e uomo che ama a tal punto Roma e la Roma da mettere da parte un Ego che non ha mai avuto e un talento che ha sempre avuto ma non esibito con vanità, per diventare bandiera in una squadra dove il suo amico e idolo Totti era già.
Poteva andare ovunque, poteva guadagnare di più, poteva vincere altrove, poteva diventare l'unica bandiera da un'altra parte. E invece no.
Essere Bandiere al mondo d'oggi non è difficile, semplicemente non esistono calciatori abbastanza coraggiosi da esserlo (l'ultima forse è Messi, al quale ci inchiniamo ancora una volta ossequiosamente).
Non esisteranno più bandiere come Zanetti all'inter, Del Piero alla Juve, e Maldini al milan etc...
Non esisteranno più giocatori che preferiscono avere una moralità e integrità sportiva da sbobinare e raccontare ai loro nipoti, piuttosto che scorrere sull'iPad la lista su wikipedia dei trofei vinti nella squadra "x" o "y".
Non esisteranno più giocatori così nelle grandissime squadre della nostra penisola e del nostro calcio mondiale. 
Pensate nella Roma: l'unica squadra al mondo che come motto ha "La Roma non si discute, si ama".
La più piccola delle Grandi, o la più grande delle piccole, storicamente e economicamente parlando, nel calcio giocato.
Perché essere Capitani di un vascello che va verso l'Eldorado (Zanetti del triplete, Maldini del "milan delle leggende", Del Piero dell'ultima Champions della Juve), non è facile, ma è comunque Epico: sei in un contesto vincente, con campioni quasi al tuo pari, se non meglio a volte, al tuo fianco, tutto è oliato e gira secondo gli schemi meccanicamente perfetti del mister, finisci sui libri di storia, le figurine panini, la pubblicità Nike della gabbia, etc.



Essere capitani invece di un vascello come quello delle acque del Tevere non è Epico, è semplicemente romantico.
Stupendamente e tristemente romantico.
L'ultimo scudetto della Roma risale al primo anno di Daniele De Rossi in prima squadra.
Come fai a non amare la poesia di questo sport?
«Ho un solo rimpianto, quello di poter donare alla Roma una sola carriera.» Ha detto una volta Daniele.
Ecco, vedere un calciatore dalla fede e dallo spirito cosi  Latino nella capitale Latina per eccellenza, ma anche latino come sudamericano (non a caso Burdisso ha dichiarato appena saputo la notizia «Daniele, ti aspettiamo al Boca!» ) che invece volerà probabilmente verso l'America ma quella del Nord, non fa che stare male tutti noi.
E come gli italiani emigrati dell'inizio 900 lui se ne andrà su quella nave e non più su quel vascello, lasciando a casa l'amore, la Roma e il cuore, cercando futuro nell'unico luogo che forse ora glielo lascia permettere.
DD16
Daniele De Rossi
Daniele De Roma
Daniele De 'a Roma
Daniè
Daniè..caricaci ancora sulle spalle...dove il Tempo non esiste!
nella speranza vana che persone come te riCAPITERAN in FUTURO!













Capo Redattore di Sport Globetrotter. 
Ossessivo, pragmatico e compulsivo ma nella Vita preferisco improvvisare. Preferisco conoscere i pazzi: hanno storie più interessanti.
Simone Carpi





martedì 14 maggio 2019

NÈ VINCITORI, NÈ VINTI

Il dominio del calcio inglese è pressoché totale e nessuno ricorda una cosa simile nel passato. Ovviamente è un successo che parte da molto lontano, da concezioni e logiche quasi più simili alle leghe professionistiche americane che a quelle europee. Questo genere di considerazione è già stato ampiamente spiegato da quasi tutti i giornalisti italiani, mi limito solo a dire che l’equilibrio in un campionato premia nel breve e lungo periodo. Le scelte strategiche della Premier, in particolare sulla distribuzione dei diritti tv, sono state opposte a quelle italiane, dove il grande club è stato premiato a favore dei piccoli. Ne deriva che, aldilà della finale di Champions ed EL di quest’anno, la Premier è un campionato molto più divertente e spettacolare della nostra (povera) serie A. In Italia chi comanda il calcio, anziché pensare a come innovarlo e migliorarlo come prodotto, è concentrato più a proporre la famigerata Superchampions, su esclusivo invito, la domenica al posto della cara e vecchia Serie A, con tanti saluti alla sua gloriosa storia e tradizione e, permettetemi, dandola in fondo definitivamente persa e irrecuperabile.
Eppure il dibattito sportivo italiano delle ultime settimane, un po’ perché la Juve è uscita dalla Champions prima del previsto e un po’ perché la Serie A è finita a Luglio, si è spostato su la diatriba, forse eterna, tra i "risultatisti" e "belgiochisti".
In pratica, i risultatisti accusano i belgiochisti di inseguire solo lo spettacolo e di creare un calcio bello da vedere ma che non vince, al contrario i belgiochisti sostengono che chi non produce bel gioco, si difenda e spera che i singolo risolva la partita non va lontano.


Le considerazioni sono tante, che il calcio italiano sia sempre stato propenso al difensivismo è vero, e qui i risultatisti hanno ragione, ma va aggiunto che anche quando le squadre italiane, nazionale compresa, hanno raggiunto traguardi importanti, hanno comunque prodotto sempre un minimo di gioco, e qui i risultatisti duri e puri del catenaccio e contropiede cadono nel torto. Basterebbe chiudere la questione con le parole di Kloppo dopo la semifinale: ”Potevo parlare di tattica e schemi prima della partita ma, non sarebbe servito a niente, quindi ho detto alla squadra che vincere 4-0 era impossibile che le opportunità erano poche, ma che i miei ragazzi possono tutto. L'ho detto anche a loro”.
Tuttavia, guardano proprio le partite di Coppa di queste ultime settimane risulta abbastanza evidente che questa polemica tutta italiana è piuttosto sterile e non centra i veri temi da dibattere. 
Una Champions con così tanti ribaltamenti di fronte non si ricorda, Barcellona – Liverpool ha sentenziato che ci cerca possesso e pressing a tutto a campo alla lunga viene premiato, Ajax – Tottenham ha sancito l’esatto opposto, perché tanto si può dire ma il Tottenham ha in un tempo ribaltato l’Ajax con verticalizzazione e lanci lunghi per Llorrente e inserimenti di ali veloci, insomma di niente di complicato e stilisticamente bello, ma molto efficace. Un unico elemento ha unito queste partite, e in Italia nei dibattiti TV con tanto di esperti è stato sempre citato a margine, l’intensità fisica delle inglesi. 

Senza questo ingrediente né Liverpool né Tottenham avrebbero raggiunto la finale con ribaltamento del risultato. Questo è quello che manca alle italiane, dalla Juve in giù, l’unica partita giocata a ritmi degni delle inglesi, è stata Juve-Atletico, poi buio totale per tutte nessuna esclusa. Sarebbe giusto dire che si dovrebbe partire da qui, che se un City-Liverpool di Premier ha ritmi e velocità paragonabili ad Ajax-Tottenham semifinale di CL, un motivo c’è, mentre un Juve-Napoli degli ultimi anni non regge nemmeno il paragone con le ultime semifinali e finali viste. Chissà se qualcuno in Italia ci spiegherà la ricetta per recuperare terreno in questo campo? Nel frattempo noi italiani godiamoci le elucubrazioni tattiche di chi da una parte sostiene che in Europa bisogna giocare con 3 registi e chi dall’altra con 3 mediani, le finali però le giocano e le vincono gli altri, alcuni giocano con pressing, possesso e corsa a tutto campo, altri col lancio lungo e la verticalizzazione. Speriamo che prima o poi anche noi ci sveglieremo da questo lungo sonno.









Manuel Fantoni

(Pubblicista su Sport Globetrotter. Cinefilo. Amo il calcio, il basket e lo sport di movimento. Appartengo alla maggioranza silenziosa e al partito del buonsenso)

domenica 5 maggio 2019

LA POESIA DA SOLA NON BASTA: Capire il fenomeno Federer

“Quasi tutti gli amanti del tennis che seguono il circuito maschile in televisione hanno avuto, negli ultimi anni, quelli che si potrebbero definire Momenti Federer. Certe volte, guardando il giovane svizzero giocare, spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene”.
Così David Foster Wallace, uno dei più grandi scrittori americani del vecchio e nuovo millennio, descrive il suo incontro con quello che considerava il tennista migliore di sempre. “Federer come esperienza religiosa” è solo uno dei tanti suoi scritti, ma è la testimonianza di un’idea, del tennis come estetica e filosofia. Nel 2005, del resto, in molti la pensavano come il vecchio David, suicidatosi tragicamente solo un anno più tardi, quando il suo idolo viveva l’anno più vincente in assoluto. 
Nel 2005 Federer era quel ragazzotto svizzero con trentanove titoli vinti nei singolari maschili, tra i quali ben otto Grandi Slam, dopo aver segnato la fine dell’epoca Sampras ed Agassi. Un concentrato di talento e slancio quasi artistico che facevano sognare commentatori del calibro di Gianni Clerici e Adriano Panatta. 
Tuttavia, simili premesse e le innumerevoli vittorie non hanno impedito ai cosiddetti “addetti ai lavori” di giudicare nel 2010 la stella elevetica cadente e in rovina. Le risposte sono arrivate come sentenze: settimo Wimbledon nel 2012 contro Murray e le annate sotto la guida di Ivan Ljubicic, con l’ottavo Wimbledon e due vittorie agli Open di Australia. Oggi Federer è Mr. 101 titoli vinti in carriera, dei quali 20 Grandi Slam e un Carreer Grand Slam a quasi trentotto anni compiuti. 
I numeri, però, poco ci dicono delle ragioni del successo e della longevità atletica tuttora in corso. Come fecero gli autori della rivista americana 60 Minutes nel 2004, occorre andare indietro, alle origini di ciò che oggi ammiriamo. Un caratteraccio e una fragilità nervosa, fino alla morte dell’adorato maestro nell’epoca juniores nel 2002, episodio che tempra e fa maturare un animo tormentato. Il legame insolitamente stabile e maturo con la fidanzata e poi moglie Mirka, ex tennista professionista che lo segue ovunque (anche oggi) e che amministra tutti i suoi affari finanziari.
Questo era Roger Federer, almeno fino a qualche anno fa. Già, perché dopo un’assenza durata mesi che quasi preannunciava un suo addio, The Master è tornato con un nuovo gioco, più aggressivo e incisivo, riguadagnando addirittura il primato della classifica ATP. Come si spiega tutto questo? Da dove deriva? Dopo la sfortunata annata segnata dalla mononucleosi e i numerosi disturbi alla schiena che lo hanno fortemente limitato, in molti avrebbero scommesso sulla racchetta appesa al chiodo. Fortunatamente, questo non è successo e forse dovremo attendere ancora un po’ prima di vedere il gentleman svizzero lasciare per sempre i campi da tennis.
Il suo gioco, la sua manualità e le sue geometrie hanno sempre avuto quel tratto raffigurativo e artistico che gli viene riconosciuto; la plasticità e la velocità dei movimenti, specialmente sulle superfici veloci, lo ha reso per anni ineguagliabile e perfino imbattibile. La rivalità con Nadal e l’esplosione del gioco quantitativo, fatto di scambi veloci e interminabili, hanno minato la stabilità mentale e fisica di Federer, che a quel punto si è visto costretto ad operare un cambiamento, un’evoluzione. Questo il trucco, la pillola della felicità del tennista d’oltralpe.
Tramite la guida e l’esperienza dell’allenatore ed ex giocatore Stephan Edberg, Federer perfeziona e rivoluziona il suo intero repertorio. Ritrova un utilizzo più scientifico e tattico del topspin, sia in diagonale che lungolinea; spinge maggiormente sul rovescio stretto in diagonale, specialmente durante la fase di risposta, limitando il back difensivo e attendista. Interviene sul servizio, da sempre tra i suoi colpi migliori, lavorando maggiormente la palla col Service tagliato in Kick e variando il più possibile ogni singolo angolo, per non dare punti di riferimento all’avversario. Ultimo accorgimento tattico: variabilità assoluta nelle angolazioni, nei rallentamenti e nelle accelerazioni, spezzando così il ritmo ai giocatori più monotoni e forti fisicamente. 
Risultato? Un gioco intenso e spumeggiante, con successi notevoli sia nei Masters 1000 che negli Slam. Federer, oltre ad essere rinato, sembra giocare meglio del suo periodo d’oro; più concentrato, più cattivo, ma soprattutto più incisivo, anche contro le sue nemesi più toste. E’ già un giocatore sopra i trent’anni, ma colpisce con una forza da ragazzino e con la testa di un esperto calcolatore. Tra il 2011 e il 2015-2016, impartisce lezioni e torna sul tetto del mondo, senza aver perso anche solo un millesimo della classe e del talento, offuscando persino le nuove stelle emergenti. Eppure, c’è qualcosa che manca; i dolori alla schiena ritornano e Roger, dopo il 2012, non è più riuscito a vincere neanche uno Slam. Che fare, quindi? Ritirarsi, come molti suggeriscono. No, per niente. 
Nel 2017, dai tavoli tattici di Sky Sport Tennis Ivan Ljubicic da avversario si trasforma in un allenatore, con umiltà e spirito di avventura. Primo obiettivo del nuovo improbabile duo è rafforzare il rovescio, rendere più continuo il dritto e giocare maggiormente in lungo linea, con un gioco più aggressivo e meno attendista, l’evoluzione di quanto già sperimentato con Edberg. Sembra qualcosa di impossibile, migliorare ancora il gioco di un simile talento; eppure, Ivan Il buono, come lo chiamano ancora a Sky, ci riesce. 
Federer ricompare agli Australian Open del 2017 con un approccio aggressivo sia in risposta che al servizio. L’uso di slice e top è perfettamente variato con dritti e rovesci ad alta potenza, che generano vincenti su vincenti. Al service l’imprevedibilità regna, specialmente negli angoli a uscire, nonostante i pochi Ace di numero. Il gioco, però, non ne risente e risulta ordinato, geometrico e geniale per mentalità e realizzazione. 
E’ un altro Federer, con un gioco più evoluto e in grado di contrastare i padroni del fisico, tramite intelligenza e rapidità sontuose. Il gioco di gambe e la facilità di polso dello svizzero permettono sia un discreto risparmio di energie che un’incisività devastante e a tratti inarrestabile. Vince in finale contro Nadal al quinto set, ma sconfigge il maiorchino in tutti i successivi incontri. Fino ad oggi.
Cos’hanno dunque in comune il lavoro di Edberg e Ljubicic? Per prima cosa, la volontà del giocatore di imparare e migliorare, la consapevolezza di non essere ancora arrivato e l’umiltà di ascoltare coach che, messi insieme sulla carta, non possono esprimere le vittorie e la magia della sua racchetta. Roger, riferiscono in ogni intervista, è un lavoratore nato. Umile, desideroso di imparare alla pari di un bambino, fiducioso verso i consigli e le nuove tattiche. Roger si dimostra un professionista ma anche un maniacale perfezionatore, capace di modificare il suo gioco rendendolo sempre migliore. Sembra assurdo, ma oggi Federer gioca meglio di dieci anni fa, quando incantava già tutto il mondo.
Il lavoro dei due coach della maturità ha significato non insistere su un gioco fisico e spossante, privilegiando le doti naturali del giocatore e il suo genio, assieme ad un paio di accorgimenti tattici di livello. Il risultato è una condizione fisica eccellente per quell’età e una facilità di esecuzione quasi migliore di un esordiente. Questo ha permesso e permette a Roger di perdurare così a lungo sui campi, grazie ad un gioco poetico e non fisico, un’attenzione tattica nuova e la consueta voglia di vincere. 
In sintesi, Roger Federer è oggi il più grande tennista di sempre non solo per la genialità e l’unicità dei colpi, ma anche per l’attitudine al lavoro e un amore sconfinato verso uno sport che egli stesso definisce più un’arte. E lui ne è un degno interprete, sotto ogni punto di vista. La poesia da sola, certamente, non è sufficiente; ma se io provassi a fare un solo dritto alla maniera di Federer, pur sembrando semplice a vederlo in televisione, non ci riuscirei perché semplice non è in realtà. Anche questa è la magia di Federer: farci credere semplice qualcosa che non lo è affatto.













Eugenio Capitani, 27 anni, studiato composizione e pianoforte al Conservatorio di Reggio Emilia, laureato in Scienze filosofiche a Bologna. Docente, ricercatore e scrittore, appassionato di letteratura, astronomia e tennis
Eugenio Capitani