giovedì 27 marzo 2014

White Chocolate: l’insostenibile leggerezza dell’essere (la pallacanestro)

di Simone Carpi


“Another great play by White Chocolate ladies and Gentleman!”.
“What – a – pass! He know when trilling the game!”
“J-Will from downtown….got it!”

12 febbraio 2000. Oakland Arena. All star week-end. Rookie Game.
Tutto va come deve andare. That’s entertainment. Ma poi accade l’inaspettato, molte persone non se ne accorgono nemmeno, ma iniziano a capire che è successo qualcosa quando vedono i vicini di posto attenti che iniziano a saltare sul posto e ad urlare. Cose del genere posso anche accadere nello spettacolo dell’All Star Game (fra l’altro quello in cui nello Slam Dunk Contest, Reverendo Vincer Carter affisse le sue personali 95 tesi sancite con un “it’s over!”), ma mai vista una roba simile, un fulmine a ciel sereno. Scena aperta di applausi.
Tutti per lui, per White Chocolate: l’insostenibile leggerezza dell’essere (la pallacanestro).
(ecco il video del famoso "elbow-pass")
Mettiamola cosi: il razzismo è una cosa strana. In America ogni cosa è elevata all'ennesima potenza portando tutto ciò su cui si posa la lente d’ingrandimento del mondo o alle stelle (della bandiera) o alle stalle, ed essendo la nazione più dominante del mondo (Cina? shh…) tutto deve prima o poi affrontare l’immaginario della nazione di Uncle Sam. Stavamo dicendo? Si il razzismo è una cosa strana, soprattutto negli U.S.A.
Per quanto riguarda il nigga, ovvero il “negro”, la società “bianca” americana del dopoguerra non ci ha pensato due volte ad abbattere i suoi diritti civili, e ad emanciparlo in ogni contesto sociale, costruendogli ergo una vita non molto facile da affrontare, per le generazioni future post Marti Luther King. Big Mamas nel Bronx con cinque figli e il marito alcolista in gabbia, a crescere la famiglia per dare un "Futuro" ai propri figli. Il basket è stato il futuro della generazione nera americana. Soprattutto per levarli dalla strada, dalla droga e dalle armi (sebbene qualche “esemplare” s’è le è portate dietro pure in NBA, vedi voce “Gilbert Arenas”). Più predisposti atleticamente e fisicamente alla disciplina di Naismith (e non solo), a poco a poco, nel corso dei decenni, il basketball player nero è passato da diventare una rarità, ad una cosa normale, fino ad essere imprescindibile.
“Glory Road” (2006, James Gartner) è un film che straconsiglio a tutti e in particolare a chi come me soffre di NBA disease, vista la lucida lettura da parte del regista nel far vedere (è una storia vera) quel mondo americano anni 50 scontrarsi contro l’alba del futuro dominio black nella lega di basket più importante del mondo.
Ma torniamo ad Oakland, e alla folla euforica e concentriamoci su uno dei più bei nicknames della storia dell’ NBA, ovvero “White Chocolate“.
Un ossimoro geniale. Un accostamento della parola “chocolate”, ovvero “cioccolato” quindi riferito al nero di pelle, con “white” ovvero “bianco”, quasi come se fosse una cosa strana o perlomeno peculiare. J-Will, J-Dub, Whiteboy, tutti soprannomi (tatuati fisicamente e non solo) nella persona di Jason Chandler Williams, ma White Chocolate resta il suo e, plebiscitariamente di tutti, il preferito di sempre.

Marshall University, NCAA, college Americano. Jason combina 13.4 p. e 6.4 a. nel suo anno da freshmen. Not Bad. Qualche anno dopo passa ai Florida Gators, e dopo una serie di sfortunati eventi (diciamo che flirta mica male con la signorina Maria) è pronto per il Draft del 1998, pick #7. Approda ai Sacramento Kings. Due anni dopo da freshmen della lega gioca la partita riservata al “novizi” del gioco all’All Star Game del 2000. La reazione della folla la conoscete già. Ma è proprio nel suo anno da rookie nella franchigia capitanata da C-Web Chris Webber, che Stephanie Shepard, addetta all’ufficio stampa dei Kings, questa trovata tanto geniale quanto vera nella sua descrizione. 
“The way he does things with the ball is incredible to me. It reminds me of, like, schoolyard street ball.” afferma ai giornali al momento della J-Will Mania. Ma prima di parlare di quest'ultima, vi spiego il perché dell’ossimoro geniale: partendo dal presupposto che non si può criticare ne tanto meno parlare di un pittore, se non si è mai visto un suo quadro, ecco lo stesso discorso (non a caso) vale anche per Jason Williams. Le sue giocate appunto da street basket, fanno parte del dna nigga della serie quartiere Harlem, joint in tasca, palla in una mano e revolver nell’altra, tanto per usare un luogo comune “alla Spike Lee” molto chiaro. 
E' estroso, è tracontante, a volte esagerato, spesso visto come "fuori luogo" dal playmaker vecchia scuola (mister "capelli alla ricky cunningham" passaggio solo due mani petto, per usare un'esempio classico da praticanti della disciplina), perchè porta la filosofia nera della pallacanestro nella filosofia bianca. E' uno sgarbo, è blasfemia sportiva, è un insulto. Invece no. E la cosa funziona pure. Parecchio.
Assist no look belli quanto impensabili, giocate di pura avanguardia intellettuale di lettura di gioco, shake n’ bake spiazzanti, crossover come fossero fragole, triple senza ritmo dove l’unico rumore che si poteva udire al momento del rilascio della palla era l’orgasmico “ciuff” della retina. Grandissimo genio ma anche grandissima dose di follia iniettata nelle sue vene: Jason Williams rappresenta al meglio l’insostenibile leggerezza dell’essere la pallacanestro. La giocata che lo fa entrare nella top10 assist della stagione, seguita da una palla persa che fa fare il canestro del +8 agli avversari. Aprire una gara delle Finals 2006 con Miami in contropiede campo aperto, con palleggio arresto e tiro da tre senza neanche pensarci su. Il diavolo in panchina, Pat Riley, sguardo glaciale e imprecazioni al cielo. Ma deve arrendersi. Solo retina. Un’altra volta.

La gente lo ama, lo idolatra. Il suo stile di gioco porta il videogame nella realtà , lo spettacolo nello spettacolo, la sorpresa nell'abitudine. Basta qualche mese a Sacramento, dove Jason fa il playmaker che inventa e diverte con uno stile che Bob Cousy vedendolo da lassù avrà sicuramente sorriso. Impazza la J-Will fever. La maglia di Sacramento #55 è tra le più vendute del sito NBA. La copertina di Sport Illustrated (il Vaticano dello sport americano) scrive in copertina “The greatest show on court” e ci sbatte sopra Jwill C-web e soci. Jason gioca spettacolosamente ma con garbo tattico e i Kings concludono la stagione 2001 con 55-27 finendo secondo nella Pacific Division. La gente è tutta per White Chocolate, amici e nemici assieme pronti a gustarsi la prossima folle invenzione del ragazzo di Belle - West Virginia.  I paragoni, che in America sono sempre comunque più oculati e meno prematuri rispetto a ciò che siamo abituati a sentire in italia nel calcio, parlano chiaro: “Pistol Pete is alive! #55” è uno dei più cartelloni ricorrenti fra gli spalti (come se Gabbiadini della Sampdoria, venisse appellato come “il nuovo Roberto Baggio”). Altro mondo
(Uno dei più famosi cartelli che la gente faceva in onore di J-Will)
Jason Williams è indiscutibilmente un genio e innovatore del gioco. Ma si sa, dove Dio dà, deve anche poi togliere. E il buon Giasone ha varie mancanze: spesso disciplinari (l’eterno amore per Maria), e anche “accademiche” (sempre tanto malvisto dai rosiconi play bacchettoni bianchi). L’anno successivo alla copertina di Sport Illustrated Sacramento lo rimpiazza con un playmaker più ordinario, monotono ma anche più regolare: Mike Bibby.


(Copertina Sport Illustrated)
Come tutti i romanzi che parlano di grandi ed eclettici personaggi, si arriva ad una tensione narrativa tale che l’eroe inizia a decadere, frutto il corso della vita e spesso la sua stessa natura contradditoria. “Chi tende continuamente verso l’alto deve aspettarsi prima o poi d’essere colto dalla vertigine”. scrive Milan Kundera ne ’”L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Lo stesso accade a Jason. Sacramento, poi Memphis, Miami, poi Orlando e ancora Memphis. E poi il ritiro. Il punto di picco massimo come referenza sportiva lo acquisisce nel 2006 con gli Heat vincendo l’anello (accompagnato da due “giovinotti discreti” come Alonzo Mouring e Shaquille O’Neal), poi per il resto una lenta e inesorabile discesa. Qualche giocata assurda non mancava mai, ma il minutaggio era sempre limitato, e il peso della vita verteva sempre più spesso sulla sua schiena e sulle sue ginocchia. 
Non credo che Jason Williams andrà nella Hall of Fame. E non avrei avuto bisogno di inaugurare questa rubrica parlando di lui, se un giorno sarà riconosciuto nell’albo a fianco di Oscar Robertson, Bob Cousy e Pete Maravich. Non penso serva un riconoscimento ufficiale per chi come lui, ha entusiasmato con le sue giocate milioni di persone, e fatto nascere nel sottoscritto il desiderio di vedere prima e provare poi, la pallacanestro. Non è roba da poco penso fra me e me. Questo è il mio, seppur marginale, modo per dirgli grazie. Grazie Jason per avermi entusiasmato ad ogni tua giocata e aver cambiato il mondo sportivo in cui hai vissuto. 
Chissà se, quando andrai in pensione, sarai ancora in grado di fare un assist no look dei tuoi, magari quando a tavola l’anziano compagno a tavola chiederà il sale. 
Io credo di si. 
E anche lui.
(Un video con gli highlights  della fantastica carriera di Jason Williams)



Nessun commento:

Posta un commento