mercoledì 29 maggio 2019

DEA & FINTI DEI

I complimenti per questa stagione all’Atalanta sono doverosi e non dovrebbe essere diversamente. Certamente non saranno mai come gli elogi visti, sentiti e letti in questi giorni, in perfetta linea con quella regola non scritta italiana che il vincitore si elogia e lo sconfitto si critica sempre e a prescindere. Sono e sarò sempre per un campionato, come in questo caso, in cui la squadra al quattordicesimo posto per monte ingaggi possa arrivare terza, ma alcuni appunti a questa Atalanta vanno fatti per onestà intellettuale.
Partendo dal primo, l’eccezionalità di questa squadra è addirittura, sentendo Capello al Club di Sky l’altra sera, superiore allo storico scudetto dell’Hellas Verona. Sono in disaccordo, prima di tutto perché negli ultimi 10 anni, se chiudo gli occhi, mi giungono alla mente la Samp di Cassano e Pazzini (l’anno dopo fu Serie B) e l’Udinese di Guidolin (più volte e sempre fuori al preliminare). Come già detto, ben vengano storie come queste ma, non esageriamo nell’unicità di quanto accaduto quest’anno.
Gasperini ha fatto un grande lavoro di crescita con il gruppo Atalantino e lascio dire ai competenti se il suo sia il gioco più europeo che ci sia in Italia. Tuttavia, va detto che in questa stagione il cammino europeo della "Dea" si è arrestato contro il non irresistibile Copenaghen al preliminare di Europa League e il vero cambio di passo è arrivato non con il gioco ma con l’esplosione di Zapata. Rimango personalmente convinto che Gasperini sia un allenatore, al pari dei vari Mazzarri, Guidolin, Pioli etc…, perfetti per squadre medio-piccole con ambizioni europee, ma non adatti per squadre di alta classifica dove la posta sia in campionato che in coppa è più alta. La dimostrazione è stata l’esperienza fallimentare con l’Inter. Il banco di prova, che sarà Roma o Atalanta, verrà l’anno prossimo e sarei felice di essere smentito in questo pensiero.





Continuo a vedere nell’Atalanta come in tutte le prime 10 del campionato, salvo felici eccezioni, pochi italiani nell’11-titolare, in questa stagione nelle rotazioni con almeno 20 presenze si annoverano solo Gollini, Mancini e Masiello (non un ragazzino). Null’altro. A voi i commenti. Non credo sia un caso che nell’anno in cui i bergamaschi hanno puntato su giocatori affermati e non sui giovani sia arrivato l’exploit.
Rimane infine da discutere sul punto più critico. Spero tanto la prossima stagione di vedere la Dea poter realmente lottare in champions ma credo sarà davvero dura. Secondo la grande ipocrisia del Ranking Uefa, vige il postulato che in Europa si tifano le italiane, a parte la bestialità concettuale della cosa, secondo questo stesso ragionamento, in virtù del ranking nella corsa 4° posto avremmo dovuto tifare più Milan e Roma. Il motivo è semplice se per l’Atalanta già la sola partecipazione alla Champions, vada come vada, è un successo, per Milan e Roma no, in quanto punterebbero a un percorso europeo il più lungo possibile. Inoltre, forse sbaglio, ma sarà dura che di fronte a congrue offerte i bergamaschi non lascino partire gioielli. Insomma in chiave ranking, una Atalanta oggi o un Udinese ieri, che rimangono fuori dal girone o al più vi prendevano parte senza ambizioni, è un grosso passo indietro e vorrebbe dire, di fatto, di avere 3 sole squadre che puntano a un cammino il più lungo possibile in Champions. Fa sorridere che chi oggi ne tesse le lodi, siano gli stessi che pretendono che un milanista tifi Inter in Europa e viceversa, contro quella tradizione e rivalità che danno quel qualcosa in più al nostro povero campionato.  
Ci auguriamo una riorganizzazione della Serie A, in senso economico, che permetta sullo stile inglese, di competere realmente in coppa evitando smembramenti estivi delle rose in nome delle plus-valenze.
In bocca al lupo all’Atalanta per la prossima stagione ma, se OGGI la elogiamo, allora basta Ranking e ipocrisie DOMANI.













(Pubblicista su Sport Globetrotter. Cinefilo. Amo il calcio, il basket e lo sport di movimento. Appartengo alla maggioranza silenziosa e al partito del buonsenso)

Manuel Fantoni

sabato 18 maggio 2019

CAPITERAN FUTURO?




Daniele De Rossi non sarà più un calciatore della Roma. Avete tutti letto i giornali, i social e pure sentito l'audio di whatsapp di Daniele che gira su Youtube.
La tecnologia ha stravolto la nostra vita, e questa notizia ha stravolto chi ama il Calcio in maniera totalmente improvvisa e trasversale.
Milanisti, Juventini, Interisti, Napoletani, Albinoleffesi (per dire), e Romanisti sono rimasti arrabbiati, amareggiati, delusi e forse ora disillusi.
Sarebbe facile e banale scrivere una articolo per dire che "le Bandiere nel Calcio non esistono più", "il Calcio è cambiato e sono cambiati i calciatori", "Eh ma Maldini, Zanetti..." eccetera eccetera.
Sarebbe facile e banale, ma anche giusto. Ma non lo farò.
Parliamo piuttosto del 1° e forse unico caso nella storia di Calcio di "Leader nel Leader", ovverosia di bandiera (lettera minuscola) della squadra, cioè Daniele De Rossi, che a sua volta è ed è stato sotto la Bandiera (lettera maiuscola) della squadra: Francesco Totti.
Nel calcio europeo i soprannomi (ahinoi) non sono d'uso comune, a differenza di quello sudamericano, e quando si danno, la fantasia ecco non è che sia la cosa che abbondi maggiormente...spesso. 
In Italia si può sentire dire "CR7 con una bordata d'esterno!" quando in Sudamerica il titanico Victor Hugo Morales urlava "El Diez Maradona! De qué planeta viniste, barrilete cosmico!" 

"L'aquilone cosmico". Ciao.


Se vi volete davvero bene, mettete l'audio al massimo volume.

Ma torniamo in Europa, al centro del nostro Mondo, nella nostra Caput Mundi.
A volte dicevo, anche noi europei però coi soprannomi non siamo cosi male.
Esiste forse un soprannome più struggente, poetico e vero di "Capitan Futuro"?
Un moto a luogo nel soprannome che è al tempo stesso una promessa e una condanna, una fotografia instantanea e al contempo perenne, di un giocatore, calciatore e uomo che ama a tal punto Roma e la Roma da mettere da parte un Ego che non ha mai avuto e un talento che ha sempre avuto ma non esibito con vanità, per diventare bandiera in una squadra dove il suo amico e idolo Totti era già.
Poteva andare ovunque, poteva guadagnare di più, poteva vincere altrove, poteva diventare l'unica bandiera da un'altra parte. E invece no.
Essere Bandiere al mondo d'oggi non è difficile, semplicemente non esistono calciatori abbastanza coraggiosi da esserlo (l'ultima forse è Messi, al quale ci inchiniamo ancora una volta ossequiosamente).
Non esisteranno più bandiere come Zanetti all'inter, Del Piero alla Juve, e Maldini al milan etc...
Non esisteranno più giocatori che preferiscono avere una moralità e integrità sportiva da sbobinare e raccontare ai loro nipoti, piuttosto che scorrere sull'iPad la lista su wikipedia dei trofei vinti nella squadra "x" o "y".
Non esisteranno più giocatori così nelle grandissime squadre della nostra penisola e del nostro calcio mondiale. 
Pensate nella Roma: l'unica squadra al mondo che come motto ha "La Roma non si discute, si ama".
La più piccola delle Grandi, o la più grande delle piccole, storicamente e economicamente parlando, nel calcio giocato.
Perché essere Capitani di un vascello che va verso l'Eldorado (Zanetti del triplete, Maldini del "milan delle leggende", Del Piero dell'ultima Champions della Juve), non è facile, ma è comunque Epico: sei in un contesto vincente, con campioni quasi al tuo pari, se non meglio a volte, al tuo fianco, tutto è oliato e gira secondo gli schemi meccanicamente perfetti del mister, finisci sui libri di storia, le figurine panini, la pubblicità Nike della gabbia, etc.



Essere capitani invece di un vascello come quello delle acque del Tevere non è Epico, è semplicemente romantico.
Stupendamente e tristemente romantico.
L'ultimo scudetto della Roma risale al primo anno di Daniele De Rossi in prima squadra.
Come fai a non amare la poesia di questo sport?
«Ho un solo rimpianto, quello di poter donare alla Roma una sola carriera.» Ha detto una volta Daniele.
Ecco, vedere un calciatore dalla fede e dallo spirito cosi  Latino nella capitale Latina per eccellenza, ma anche latino come sudamericano (non a caso Burdisso ha dichiarato appena saputo la notizia «Daniele, ti aspettiamo al Boca!» ) che invece volerà probabilmente verso l'America ma quella del Nord, non fa che stare male tutti noi.
E come gli italiani emigrati dell'inizio 900 lui se ne andrà su quella nave e non più su quel vascello, lasciando a casa l'amore, la Roma e il cuore, cercando futuro nell'unico luogo che forse ora glielo lascia permettere.
DD16
Daniele De Rossi
Daniele De Roma
Daniele De 'a Roma
Daniè
Daniè..caricaci ancora sulle spalle...dove il Tempo non esiste!
nella speranza vana che persone come te riCAPITERAN in FUTURO!













Capo Redattore di Sport Globetrotter. 
Ossessivo, pragmatico e compulsivo ma nella Vita preferisco improvvisare. Preferisco conoscere i pazzi: hanno storie più interessanti.
Simone Carpi





martedì 14 maggio 2019

NÈ VINCITORI, NÈ VINTI

Il dominio del calcio inglese è pressoché totale e nessuno ricorda una cosa simile nel passato. Ovviamente è un successo che parte da molto lontano, da concezioni e logiche quasi più simili alle leghe professionistiche americane che a quelle europee. Questo genere di considerazione è già stato ampiamente spiegato da quasi tutti i giornalisti italiani, mi limito solo a dire che l’equilibrio in un campionato premia nel breve e lungo periodo. Le scelte strategiche della Premier, in particolare sulla distribuzione dei diritti tv, sono state opposte a quelle italiane, dove il grande club è stato premiato a favore dei piccoli. Ne deriva che, aldilà della finale di Champions ed EL di quest’anno, la Premier è un campionato molto più divertente e spettacolare della nostra (povera) serie A. In Italia chi comanda il calcio, anziché pensare a come innovarlo e migliorarlo come prodotto, è concentrato più a proporre la famigerata Superchampions, su esclusivo invito, la domenica al posto della cara e vecchia Serie A, con tanti saluti alla sua gloriosa storia e tradizione e, permettetemi, dandola in fondo definitivamente persa e irrecuperabile.
Eppure il dibattito sportivo italiano delle ultime settimane, un po’ perché la Juve è uscita dalla Champions prima del previsto e un po’ perché la Serie A è finita a Luglio, si è spostato su la diatriba, forse eterna, tra i "risultatisti" e "belgiochisti".
In pratica, i risultatisti accusano i belgiochisti di inseguire solo lo spettacolo e di creare un calcio bello da vedere ma che non vince, al contrario i belgiochisti sostengono che chi non produce bel gioco, si difenda e spera che i singolo risolva la partita non va lontano.


Le considerazioni sono tante, che il calcio italiano sia sempre stato propenso al difensivismo è vero, e qui i risultatisti hanno ragione, ma va aggiunto che anche quando le squadre italiane, nazionale compresa, hanno raggiunto traguardi importanti, hanno comunque prodotto sempre un minimo di gioco, e qui i risultatisti duri e puri del catenaccio e contropiede cadono nel torto. Basterebbe chiudere la questione con le parole di Kloppo dopo la semifinale: ”Potevo parlare di tattica e schemi prima della partita ma, non sarebbe servito a niente, quindi ho detto alla squadra che vincere 4-0 era impossibile che le opportunità erano poche, ma che i miei ragazzi possono tutto. L'ho detto anche a loro”.
Tuttavia, guardano proprio le partite di Coppa di queste ultime settimane risulta abbastanza evidente che questa polemica tutta italiana è piuttosto sterile e non centra i veri temi da dibattere. 
Una Champions con così tanti ribaltamenti di fronte non si ricorda, Barcellona – Liverpool ha sentenziato che ci cerca possesso e pressing a tutto a campo alla lunga viene premiato, Ajax – Tottenham ha sancito l’esatto opposto, perché tanto si può dire ma il Tottenham ha in un tempo ribaltato l’Ajax con verticalizzazione e lanci lunghi per Llorrente e inserimenti di ali veloci, insomma di niente di complicato e stilisticamente bello, ma molto efficace. Un unico elemento ha unito queste partite, e in Italia nei dibattiti TV con tanto di esperti è stato sempre citato a margine, l’intensità fisica delle inglesi. 

Senza questo ingrediente né Liverpool né Tottenham avrebbero raggiunto la finale con ribaltamento del risultato. Questo è quello che manca alle italiane, dalla Juve in giù, l’unica partita giocata a ritmi degni delle inglesi, è stata Juve-Atletico, poi buio totale per tutte nessuna esclusa. Sarebbe giusto dire che si dovrebbe partire da qui, che se un City-Liverpool di Premier ha ritmi e velocità paragonabili ad Ajax-Tottenham semifinale di CL, un motivo c’è, mentre un Juve-Napoli degli ultimi anni non regge nemmeno il paragone con le ultime semifinali e finali viste. Chissà se qualcuno in Italia ci spiegherà la ricetta per recuperare terreno in questo campo? Nel frattempo noi italiani godiamoci le elucubrazioni tattiche di chi da una parte sostiene che in Europa bisogna giocare con 3 registi e chi dall’altra con 3 mediani, le finali però le giocano e le vincono gli altri, alcuni giocano con pressing, possesso e corsa a tutto campo, altri col lancio lungo e la verticalizzazione. Speriamo che prima o poi anche noi ci sveglieremo da questo lungo sonno.









Manuel Fantoni

(Pubblicista su Sport Globetrotter. Cinefilo. Amo il calcio, il basket e lo sport di movimento. Appartengo alla maggioranza silenziosa e al partito del buonsenso)

domenica 5 maggio 2019

LA POESIA DA SOLA NON BASTA: Capire il fenomeno Federer

“Quasi tutti gli amanti del tennis che seguono il circuito maschile in televisione hanno avuto, negli ultimi anni, quelli che si potrebbero definire Momenti Federer. Certe volte, guardando il giovane svizzero giocare, spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene”.
Così David Foster Wallace, uno dei più grandi scrittori americani del vecchio e nuovo millennio, descrive il suo incontro con quello che considerava il tennista migliore di sempre. “Federer come esperienza religiosa” è solo uno dei tanti suoi scritti, ma è la testimonianza di un’idea, del tennis come estetica e filosofia. Nel 2005, del resto, in molti la pensavano come il vecchio David, suicidatosi tragicamente solo un anno più tardi, quando il suo idolo viveva l’anno più vincente in assoluto. 
Nel 2005 Federer era quel ragazzotto svizzero con trentanove titoli vinti nei singolari maschili, tra i quali ben otto Grandi Slam, dopo aver segnato la fine dell’epoca Sampras ed Agassi. Un concentrato di talento e slancio quasi artistico che facevano sognare commentatori del calibro di Gianni Clerici e Adriano Panatta. 
Tuttavia, simili premesse e le innumerevoli vittorie non hanno impedito ai cosiddetti “addetti ai lavori” di giudicare nel 2010 la stella elevetica cadente e in rovina. Le risposte sono arrivate come sentenze: settimo Wimbledon nel 2012 contro Murray e le annate sotto la guida di Ivan Ljubicic, con l’ottavo Wimbledon e due vittorie agli Open di Australia. Oggi Federer è Mr. 101 titoli vinti in carriera, dei quali 20 Grandi Slam e un Carreer Grand Slam a quasi trentotto anni compiuti. 
I numeri, però, poco ci dicono delle ragioni del successo e della longevità atletica tuttora in corso. Come fecero gli autori della rivista americana 60 Minutes nel 2004, occorre andare indietro, alle origini di ciò che oggi ammiriamo. Un caratteraccio e una fragilità nervosa, fino alla morte dell’adorato maestro nell’epoca juniores nel 2002, episodio che tempra e fa maturare un animo tormentato. Il legame insolitamente stabile e maturo con la fidanzata e poi moglie Mirka, ex tennista professionista che lo segue ovunque (anche oggi) e che amministra tutti i suoi affari finanziari.
Questo era Roger Federer, almeno fino a qualche anno fa. Già, perché dopo un’assenza durata mesi che quasi preannunciava un suo addio, The Master è tornato con un nuovo gioco, più aggressivo e incisivo, riguadagnando addirittura il primato della classifica ATP. Come si spiega tutto questo? Da dove deriva? Dopo la sfortunata annata segnata dalla mononucleosi e i numerosi disturbi alla schiena che lo hanno fortemente limitato, in molti avrebbero scommesso sulla racchetta appesa al chiodo. Fortunatamente, questo non è successo e forse dovremo attendere ancora un po’ prima di vedere il gentleman svizzero lasciare per sempre i campi da tennis.
Il suo gioco, la sua manualità e le sue geometrie hanno sempre avuto quel tratto raffigurativo e artistico che gli viene riconosciuto; la plasticità e la velocità dei movimenti, specialmente sulle superfici veloci, lo ha reso per anni ineguagliabile e perfino imbattibile. La rivalità con Nadal e l’esplosione del gioco quantitativo, fatto di scambi veloci e interminabili, hanno minato la stabilità mentale e fisica di Federer, che a quel punto si è visto costretto ad operare un cambiamento, un’evoluzione. Questo il trucco, la pillola della felicità del tennista d’oltralpe.
Tramite la guida e l’esperienza dell’allenatore ed ex giocatore Stephan Edberg, Federer perfeziona e rivoluziona il suo intero repertorio. Ritrova un utilizzo più scientifico e tattico del topspin, sia in diagonale che lungolinea; spinge maggiormente sul rovescio stretto in diagonale, specialmente durante la fase di risposta, limitando il back difensivo e attendista. Interviene sul servizio, da sempre tra i suoi colpi migliori, lavorando maggiormente la palla col Service tagliato in Kick e variando il più possibile ogni singolo angolo, per non dare punti di riferimento all’avversario. Ultimo accorgimento tattico: variabilità assoluta nelle angolazioni, nei rallentamenti e nelle accelerazioni, spezzando così il ritmo ai giocatori più monotoni e forti fisicamente. 
Risultato? Un gioco intenso e spumeggiante, con successi notevoli sia nei Masters 1000 che negli Slam. Federer, oltre ad essere rinato, sembra giocare meglio del suo periodo d’oro; più concentrato, più cattivo, ma soprattutto più incisivo, anche contro le sue nemesi più toste. E’ già un giocatore sopra i trent’anni, ma colpisce con una forza da ragazzino e con la testa di un esperto calcolatore. Tra il 2011 e il 2015-2016, impartisce lezioni e torna sul tetto del mondo, senza aver perso anche solo un millesimo della classe e del talento, offuscando persino le nuove stelle emergenti. Eppure, c’è qualcosa che manca; i dolori alla schiena ritornano e Roger, dopo il 2012, non è più riuscito a vincere neanche uno Slam. Che fare, quindi? Ritirarsi, come molti suggeriscono. No, per niente. 
Nel 2017, dai tavoli tattici di Sky Sport Tennis Ivan Ljubicic da avversario si trasforma in un allenatore, con umiltà e spirito di avventura. Primo obiettivo del nuovo improbabile duo è rafforzare il rovescio, rendere più continuo il dritto e giocare maggiormente in lungo linea, con un gioco più aggressivo e meno attendista, l’evoluzione di quanto già sperimentato con Edberg. Sembra qualcosa di impossibile, migliorare ancora il gioco di un simile talento; eppure, Ivan Il buono, come lo chiamano ancora a Sky, ci riesce. 
Federer ricompare agli Australian Open del 2017 con un approccio aggressivo sia in risposta che al servizio. L’uso di slice e top è perfettamente variato con dritti e rovesci ad alta potenza, che generano vincenti su vincenti. Al service l’imprevedibilità regna, specialmente negli angoli a uscire, nonostante i pochi Ace di numero. Il gioco, però, non ne risente e risulta ordinato, geometrico e geniale per mentalità e realizzazione. 
E’ un altro Federer, con un gioco più evoluto e in grado di contrastare i padroni del fisico, tramite intelligenza e rapidità sontuose. Il gioco di gambe e la facilità di polso dello svizzero permettono sia un discreto risparmio di energie che un’incisività devastante e a tratti inarrestabile. Vince in finale contro Nadal al quinto set, ma sconfigge il maiorchino in tutti i successivi incontri. Fino ad oggi.
Cos’hanno dunque in comune il lavoro di Edberg e Ljubicic? Per prima cosa, la volontà del giocatore di imparare e migliorare, la consapevolezza di non essere ancora arrivato e l’umiltà di ascoltare coach che, messi insieme sulla carta, non possono esprimere le vittorie e la magia della sua racchetta. Roger, riferiscono in ogni intervista, è un lavoratore nato. Umile, desideroso di imparare alla pari di un bambino, fiducioso verso i consigli e le nuove tattiche. Roger si dimostra un professionista ma anche un maniacale perfezionatore, capace di modificare il suo gioco rendendolo sempre migliore. Sembra assurdo, ma oggi Federer gioca meglio di dieci anni fa, quando incantava già tutto il mondo.
Il lavoro dei due coach della maturità ha significato non insistere su un gioco fisico e spossante, privilegiando le doti naturali del giocatore e il suo genio, assieme ad un paio di accorgimenti tattici di livello. Il risultato è una condizione fisica eccellente per quell’età e una facilità di esecuzione quasi migliore di un esordiente. Questo ha permesso e permette a Roger di perdurare così a lungo sui campi, grazie ad un gioco poetico e non fisico, un’attenzione tattica nuova e la consueta voglia di vincere. 
In sintesi, Roger Federer è oggi il più grande tennista di sempre non solo per la genialità e l’unicità dei colpi, ma anche per l’attitudine al lavoro e un amore sconfinato verso uno sport che egli stesso definisce più un’arte. E lui ne è un degno interprete, sotto ogni punto di vista. La poesia da sola, certamente, non è sufficiente; ma se io provassi a fare un solo dritto alla maniera di Federer, pur sembrando semplice a vederlo in televisione, non ci riuscirei perché semplice non è in realtà. Anche questa è la magia di Federer: farci credere semplice qualcosa che non lo è affatto.













Eugenio Capitani, 27 anni, studiato composizione e pianoforte al Conservatorio di Reggio Emilia, laureato in Scienze filosofiche a Bologna. Docente, ricercatore e scrittore, appassionato di letteratura, astronomia e tennis
Eugenio Capitani






giovedì 2 maggio 2019

È TUTTO MOLTO SEMPLICE, IN ITALIA

Lo dichiaro subito, a scanso di equivoci, tolte le innumerevoli coppe e campionati vinti con Reggiana, Fiorentina e Vico Equense a Football Manager non ho mai allenato e guidato una squadra in carne ed ossa alla conquista di alcunché.
Eppure, pur non volendo passare per una sotto specie meno rock dei No Vax, in quanto voglioso di ribellarmi al potere del sapere precostituito senza avere i dovuti strumenti culturali, penso, e anche con forza, che il gioco del calcio possa essere affrontato anche da chi non ha mai messo piede in quel di Coverciano.
A parere di chi scrive è dura capire a pieno i motivi che spingano tifosi juventini a difendere il nostro attuale condottiero, le prestazioni sono indecorose da mesi, e ahinoi, vanno oltre la pessima prova contro l’Ajax.
Tolte le 2 gare contro il Manchester e il ritorno contro l’Atletico, il livello delle prestazioni della truppa bianconera è stato talmente tanto scadente da legittimare con forza gli occhi leggermente lucidi figli di qualche sbadiglio di troppo, che spesso hanno riempito le serate o i pomeriggi dei tifosi di Madama.
Pensare di incensare un allenatore capace di dare zero gioco, ad un collettivo di campioni pare essere intellettualmente poco onesto se non addirittura grottesco, in particolar modo se si pensa che l’argomento più solido della controparte è quello di aver vinto l’ennesimo tricolore, per carità, sempre ben gradito ma oramai insufficiente per colmare gli appetiti del mondo bianconero.
I motivi per cambiare poi sono svariati, la motivazione principale a detta di chi scrive è che al momento noi juventini dovremmo avere una fretta del demonio nel voler vincere la coppa dalle grandi orecchie, già perché parafrasando un vecchio motto calcistico “Del Piero (very) good, Baggio better, Ronaldo best”, (e quando mai lo rivedremo un fenomeno come il portoghese dalle parti di Torino?!) Lui e capitan Chiellini ad oggi sono decisamente i nostri giocatori più importanti e data l’età, sono oramai prossimi ai 35, è lecito credere che davanti a loro non avranno ancora molte stagioni.


E’ necessaria una decisone forte, ad oggi le possibilità che Allegri rimanga sono prossime allo zero, i nomi paiono essere oramai 2, Guardiola il sogno di molti e forse anche del Presidente Agnelli e Antonio Conte, il cui nome pare essere caldeggiato da Pavel Nedved.
Non ce ne vogliano troppo gli "allegriani", chi scrive non hai mai vinto nulla nel mondo del calcio ma è molto legato a questa massima: “Negli Stati Uniti ottenni inoltre la conferma che lo sport d’alto livello deve divertire il pubblico. L’ho sempre creduto, ma fu piacevole scoprire che nel più grande paese sportivo del mondo la pensano esattamente allo stesso modo. La gente lavora duramente tutta la settimana, e se decide di andare allo stadio, al fischio finale deve poter andare a casa felice e soddisfatta per quanto ha visto in campo. La vittoria non è tutto, conta il modo in cui si gioca durante la partita.”
Queste parole sono di un signore che la storia del calcio l’ha fatta per davvero, era olandese, di nome faceva Johan e di cognome Cruyff, speriamo che la sconfitta proprio contro il suo Ajax possa essere per noi un nuovo inizio, basato su argomenti più solidi del “se volete divertirvi andate al circo”.










Alberto "Futre" Marmiroli

Blogger di Sport Globetrotter tifoso della Juve e innamorato dalla Reggiana ha fra i suoi interessi le tematiche ambientali, i rapporti umani e la lotta alla mafia.